CXVIII. Caos
E poi sono arrivati.
Sulla carrozza di Wonderaunt che serafica li deposita all’ingresso di casa al limite del coprifuoco. Mentre lei affronta chilometri, scavalca montagne, aspetta la sicurezza da valanghe, decide pipìstop in tempi critici, guida e guida fino alla meta senza batter ciglio, noi si prepara l’accoglienza.
Il figlio gestisce la sua mattina scolastica in autonomia. Il potere della motivazione.
Il marito è in trasferta in ufficio, causa manie di grandezza del capo e lo schermo del pc troppo piccolo per la visto mondiale da duecento persone. Ne immagino già la faccia al rientro.
Frozen si muove in discreta autonomia, ogni tanto la coccolo, spesso la ruzzo. Ho solo poche ore per liofilizzare sette valigie di cartone e altre amenità di spettacoli, stipare lo stipabile nella parte di garage non occupata da cemento e piastrelle in attesa di posa, preparare i letti, lavare per terra, spolverare le piante, tinteggiare gli stipiti. No, quelli no, non faccio in tempo, lo accetto.
È nella vita greca che ho iniziato ad appassionarmi all’arte del b&b casereccio. In sei anni di amici ne sono passati tanti permettendomi di affinare la tecnica.
Oggi non metto i fiori freschi perché i tulipani di sabato scorso tengono ancora. Ma. Ho sempre quella mania da tutto in ordine che fa tanto casalinga anni cinquanta, solo che della sciura con i bigodini in testa ho davvero poco. Quando mi lancio nelle pulizie post attacco atomico sembro piuttosto il diavolo polveroso della Tasmania che travolge l’universo mondo al suo passaggio. E infatti nel nostro lessico familiare ‘faccio Taz’ non ha bisogno di traduzioni. Il consorte soprattutto si defila, evapora e mi lascia fare.
E io faccio. Sudo. Allineo. Sistemo. Curo così le mie ansie da prestazione, da non sono abbastanza, da che ore sono, da accidenti al filo dell’aspirapolvere che si è incastrato sotto il letto. E quando ormai sono sull’orlo del baratro, convinta che non ce la farò mai, che resterò per sempre sotto queste macerie confuse, la casa, i pavimenti, i mobili tutti fanno squadra con me e il miracolo è compiuto.
E arrivano i nostri.
Con sorrisi e viveri dai poteri taumaturgici.
Il tavolo della cucina accoglie la fiera delle specialità. Dolci, salate, alcoliche e non. Il pandoro che ci siamo persi a Natale, le chiacchiere del Carnevale in arrivo, il radicchio rosso, di due tipi che uno va bene per il risotto, l’altro perché è più buono. I finocchi freschi. E il grana. Tanto. Troppo.
Io e il figlio ne mangiamo così tanto che la crisi d’astinenza fa le valigie e ci abbandona per sempre.
La figlia canticchia. Canticchia, capite? Mi sa che il disgelo è già cominciato.
Ma il più felice di tutti è il minicane. Dopo mesi di sonno e pisolini rassegnati, fa salti da Guinness – la birra, ovviamente – uggiola, si impenna e la coda gira così veloce che tra poco decolla.
Io guardo la scena, il nostro caos tutt’altro che calmo che si sente dalla strada.
E penso al grande potere che noi esseri umani abbiamo di guarirci dai mali del cuore.
Con il cuore.
