Ventitré. Il pranzo della domenica

Oggi preparo i pizzoccheri.
La domenica c’è più nostalgia di Casa e ne abbiamo ancora un po’ in dispensa. Tanto vale farsi felici.
La confezione di pasta, la verza, il formaggio, metto anche le patate sul piano di lavoro e ne prendo una in mano: sono tutte rotonde e talmente piccole che le mangiamo con la buccia.
Ben diverse dalle matrone rugose che sbucciava la nonna nella grande cucina buia al pianterreno, nelle mie domeniche da piccola.
Ogni due settimane. La nonna ne pelava a palate e diventava la regina degli gnocchi, una divinità che scendevo a venerare la mattina presto, in babbucce di feltro.
Il figlio mi ruba un assaggio di formaggio e in quel gesto furtivo ci sono io che allungo la mano su un pezzetto di nettare degli dei. Pieno di farina. Crudo. Buono.
Non si fa, ma la nonna finge di non vedere. Siamo sole.
Il nonno gioca a carte al bar di fronte, papà fa gli straordinari, mamma è con mio fratello.
Sono l’unica ammessa al cospetto della nonna alchimista che prende la materia – le patate dell’orto, quelle giuste, sale, farina e le uova fresche delle sue galline – la plasma e crea nuova pietanza.
Impasta dando la schiena alla stufa dove bollono litri e litri di acqua salata. Durante il rito si inalano vapori salati da far invidia a un centro termale, tanto che l’umidità resta attaccata ai vetri finché mio fratello non scende a disegnarci macchinine con le dita.
La nonna mette sul fuoco tutte le pentole che ha, perché quando fa gli gnocchi ce n’è davvero per tutti, nessuno escluso: famiglia, vicini di casa, due o tre soci delle carte del nonno.
Solo lei ha il diritto di officiare il rito magico di trasformazione, io sono l’adepta, osservante golosa di pasta cruda.
Le sue mani piene di calli massaggiano il magma farinoso: energiche per imporre il proprio volere alla massa informe, diventavano leggere e rapide in un’orchestra di gesti e tempi che ricordo precisi, sempre uguali. Ottenuta la consistenza voluta, la nonna stacca pezzi misurati di pasta e la sottopone a un movimento circolare. Il panetto diventa un serpentello ondeggiante che viene sezionato in parti uguali, distribuite con uno scatto di polso sugli strofinacci infarinati. Lì resta alcuni minuti a riposare e poi tocca a me. Prendo una forchetta e imprimo la forma definitiva agli gnocchi tracciandone i solchi con i rebbi. Sono maldestra, li schiaccio troppo o troppo poco, perdo il ritmo e mangio di gusto i miei errori. La nonna mi corregge con l’esempio, qualche scappellotto e ammonimenti in dialetto sui danni della pasta cruda, ma il mio stomaco non ha mai restituito quei furtarelli di patate e gli gnocchi sono sempre bastati per tutti.
E tutti arrivavano, anche con qualche sedia dal bar, casomai non bastassero le nostre. La nonna si puliva le mani nel grembiule e prendeva un mestolo per scolare gli gnocchi.
Io non porto il grembiule, ma faccio lo stesso gesto di preparare le mani al gran finale. Prendo il mestolo e scolo gli ingredienti per il pranzo della domenica. Arrivano il marito, il figlio, la figlia e il minicane. Mancano tutti gli altri.
Sono lontani. Ci mancano.
Ma appena finisce faremo il pranzo più lungo della storia.
L’amore in famiglia è una questione di pancia.

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