Trentuno. Storie d’acqua
La figlia è rimasta un po’ indietro con i compiti. Tipo due settimane.
Su quattordici giorni di confinamento.
Ha letto, giocato con le tabelline, cantato quello che si deve cantare, ma il programma non ce l’ha fatta. Non ce l’ho fatta.
Ogni giorno ha un elenco di cose da fare e sono tante. Sono le sei ore di scuola tradotte a casa. Quindi almeno otto, perché ci sono le pause merenda, le pause minicane, le pause crampo alla mano, le pause e basta.
L’anarchia condivisa ha avuto il sopravvento. Ma oggi iniziamo la terza settimana con un’idea che dovrebbe salvare programma e buonumore: lo studio per materie.
La matematica si può rimandare – la rimando sempre a quando il marito è libero – con l’arte ci siamo abbastanza. Attacchiamo il francese. La figlia organizza il piano di lavoro: partiamo da oggi fino a venerdì, il resto indietro lo vedremo dopo. Io mando in stampa le pagine da leggere e le schede per la comprensione del testo. Dodici pagine. Carta e cartucce sono ancora in forma per fortuna, ma dodici pagine. In terza elementare.
Il bugiardino della maestra consiglia di assumere il prodotto cartaceo in dosi giornaliere, ma noi si esagera. Facciamo tutto. Via il dente via il dolore.
Riassunto: è la storia di una gocciolina d’acqua di nome Polpette, Pochette…Perlette, mamma!
Di nome Perlette che si trova su una nuvoletta rosa insieme a tante altre goccioline, ma si annoia e decide di andare a farsi un giro sulla terra. E lì gliene succedono di tutti i colori, tanto che alla fine torna su appena può.
Una via di mezzo fra il ciclo dell’acqua e il restate a casa se non lo avete capito.
Alla seconda pagina so già come va a finire, spero che la goccia venga bevuta dal bue, mi illudo di incappare in una virata trash quando finisce nelle fogne di Parigi, ma il lieto fine si avvicina inesorabile. La figlia continua stoicamente a leggere. Ma approfitto di un cambio di scena e propongo una pausa. Dieci minuti di lettura ad alta voce per una bambina sono già un bello sforzo. La voce va fatta riposare. Un bicchiere d’acqua? Un succo?
Possiamo anche fermarci qui, quando Forchette, Ferlette, sì scusa, Perlette, si riempie di schiuma cadendo dalla ruota del mulino.
Ti ricordi quando è successo al canale?
La figlia si illumina e mi racconta l’episodio, narratrice nata.
Dall’altra parte di casa, oltre la strada e una fila di abitazioni basse, scorre un canale lungo il quale nell’altra vita andiamo in bici, con il minicane e a passeggiare.
Un sabato mattina usciamo noi due sole e notiamo strani fiocchi che volteggiano sopra i tetti e intorno agli alberi. Neve non può essere, siamo in giugno e anche il nord ha un limite. Ma allora? Ci avviciniamo e riconosciamo la schiuma. È dappertutto. Nel canale l’acqua è diventata una coltre soffice e bianca. All’altezza della piccola chiusa dove c’è una cascata, il livello è superato, il sentiero è cancellato. Mi sembra di essere nel racconto di Calvino, quando i figli di Marcovaldo versano il sapone in polvere nel fiume e la schiuma sommerge tutto il modo.
Non ci avviciniamo e non la tocchiamo, ma lo spettacolo è grandioso, irreale.
Scopriremo poi che non era uno shampoo per pesci. Sono morti in tanti per quell’illecito versamento. Un atto criminale. La schiuma è stata ripulita in un paio d’ore, l’efficienza francese è da medaglia. Ma quello che la figlia ricorda di più sono i pesci immobili a pelo d’acqua e due tartarughe che annaspavano per uscire.
Pausa scaduta.
Meglio tornare a Pirlette e al suo lieto fine.
Le storie sono un allenamento alla speranza.

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