Settantuno. Nel nome del sito
Non si vede più. Eppure so che c’è.
Come lo zucchero nel caffè.
Non servono più tende opportune a celare i momenti, il sipario stagionale è calato sulle scene d’interni. La cena tardi, il cambio di lenzuola, la sigaretta affacciata.
Inghiottiti dal verde, i settantuno torneranno a vedersi in autunno.
Ma sono sempre laggiù. Dove tutto è cominciato.
La carta d‘identità nel mondo virtuale l’ho trovata fuori dalla finestra.
Non è un riferimento al mio anno di nascita, che è quello pari subito dopo, ma alla conta degli appartamenti in fondo al giardino.
C’è tutto un complesso di finestre che ci guardano, ho contato più volte. Non capisco il dispari. Eppure. L’edificio ha una forma bassa e si interrompe fra le magnolie per riprendere poi sul lato, più convinto e più alto. Sembra una torta con il pan di spagna forato per far sbirciare il ripieno alle ciliegie in guarnizione. Ci sono strati di stanze che si sovrappongono: la cucina sulla cucina, il bagno sul fratello, il soggiorno pure quello. Cantano filastrocche disarticolate i locali arredati a gusto personale. C’è un camera da letto verde acido in alto a destra. Immagino i sogni. Una tenda bordeaux accende le cene sulla sinistra di mezzo.
Il nostro inverno si colora di storie intraviste e cercate nelle sere buie.
Loro fanno lo stesso con noi. Non abbiamo pudore sui vetri, neanche i vicini, niente stoffe contro l’esterno. E quando accendiamo le luci, parte una pièce di teatro casalingo. A scelta.
Nei momenti di vuoto resto in scena, di solito al piano alto. Da lì interpreto la visione del tramonto o grido ‘attento a tua sorella con ‘sto pallone’. L’accento non serve, l’idioma italiano qui è straniero, sa già di sud un semplice ciao.
Le ascolto le voci, perlopiù di bambini, non ancora educati alle note basse in sordina.
Quando la musica passa ogni tanto, portata del vento, mi sorprende ladra impunita, ma non mi sgrida mai.
In confinamento si sente di più. A mezzogiorno l’odore della fabbrica di lievito deve competere con la griglia di Corona e Calvà e con i profumi speziati un po’ più in là. Credo che ci sia un po’ di sud anche in basso a destra.
La clausura forzata ha liberato le tapparelle che restano alzate. Prima alcuni appartamenti non aprivano gli occhi che nel fine settimana. Forse per assenze lavorative, forse per partenze e rientri al buio e ‘che la tiro su a fare?’
I visi sono troppo lontani, indovino i capelli, riconosco le donne. C’è una coppia che mangia di fronte, sul tavolo lungo la finestra. Un’anziana due piani sopra accarezza un gatto rosso.
Settantuno quadri animati.
E un immobile.
Che è parola doppia: è anche un contrario, un’assenza. Di movimento, di libertà.
Tutti chiusi in prigioni addomesticate a farla passare. Questa vita fermata in attesa del prossimo bus.
Il nome è lì quando comincio il diario di bordo.
Guardo fuori e parto da noi, ma poi torno a sbirciare le vite degli altri in un gioco al confronto che non ha regole scritte. Solo canzoni.
Ora è tutto sparito dietro le foglie. Con la bella stagione una pausa si impone.
E da domani si esce. Dicono che stia passando, il quaranta.
Ma ci saranno altre scene sulla strada della guarigione.
Che di smettere, per ora, non ho nessuna intenzione.

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