100 e ventisette. Scartoffie
Cambiamo le targhe dell’auto.
Dopo quattro anni. Finalmente.
In effetti c’è una legge che impone di allineare il mezzo all’indirizzo di residenza, ma le parti si sono rivelate restie all’intesa e questa unione civile si è sempre interrotta all’altare.
Perché ci ho già provato due volte a fare il grande passo. Vado sul sito del Ministero, inserisco i dati, al primo tentativo però manca le contrôle technique. Capisco cos’è, prenoto, faccio. Tempo scaduto. Tutto da rifare.
Ci riprovo, ma c’è un altro intoppo, forse una firma del marito che è in viaggio, e di nuovo on laisse tomber. Più che la capacità manca la motivazione, tanto più che l’assicurazione è in regola, il bollo pure, dove abita il nostro mezzo rimane un dettaglio.
Da risolvere.
E stavolta la si cambia la plaque. Promesso.
Avete il permesso?
L’intermediario a cui ci rivolgiamo è gentile, ma da buon sicario mette subito le cose in chiaro: lui si occupa del caso, ma noi dobbiamo fornire tutti i documenti entro lunedì.
Sto già sudando. Il personal targhe che ho ingaggiato serve a non farmi mollare, stavolta vado fino in fondo, anche se ho come uno strano presentimento.
La Qubo in settimana ha fatto il suo dovere e ha passato il controllo. Ora tocca a noi fornire il certificato di conformità, l’attestato di residenza di meno di tre mesi, la carta di identità e il permis de conduire, appunto. Tutto in duplice copia e doppia mandata, che la macchina io e il marito l’abbiamo intestata a entrambi, i furbi.
Mentre preparo la cartelletta con tutto il necessario, trovo con soddisfazione il documento di acquisto che la gentile segretaria della concessionaria mi aveva inviato via mail al primo tentativo poi fallito. Stavolta ci siamo, ce le ho tutte!
Mi viene la tentazione di fare la splendida e di aggiungere il gruppo sanguigno e via, anche il certificato di matrimonio, così, giusto per dimostrare che noi quando ci si impegna lo si fa per la vita.
Ma.
Ecco che il sassolino che sentivo nella mia scarpa mentale si trasforma in un macigno rotolante.
Il cuore ha un’impennata, il respiro si blocca.
Dov’è quel bel foglio cartonato con il bollo dorato su fondo gialloverdino che da noi si chiama certificato di proprietà?
Eh, dov’è? Dove si è cacciato?
In tante cose sono borderline, d’accordo, ma ho un classeur bianco per ogni argomento utile alla nostra sopravvivenza sociale. Banca, bollette, cane, casa, elettrodomestici, Italia, lavoro, scuola, tasse. Auto è il primo in ordine alfabetico.
Devi essere qui, non puoi sparire così.
Forse sei migrato per errore in un altro faldone.
Ehilà! Qualcuno lo ha visto?
Li apro tutti, sfoglio generazioni di ferri da stiro ed estratti conto. Ma nessuna traccia del documento scomparso.
Poi mi ricordo.
All’epoca del primo corteggiamento sul sito avevo già fatto una cartelletta, per la mia ormai nota mania dell’ordine. Era blu, una cartelletta blu.
Era. Che ormai avrà cambiato colore. Si sarà mimetizzata. Non può essere altrimenti, perché se no l’avrei già individuata.
Famiglia, al lavoro! Cominciate a scavare.
Mentre fuori babbonatale guarito e lo smilzo impastano il cemento finale, noi ci dedichiamo all’archeologia d’interni. Il minicane stana scontrini di pranzi digeriti da tempo, la figlia si incanta su un suo antico disegno, il figlio passa in rassegna la pila ancora da archiviare, il marito mi guarda e scuote la testa mentre sbuffo come una locomotiva e controllo sotto al divano.
Eccola! No, sotto al divano c’è il tappetino da yoga.
È invece in fondo a una scatola zeppa di programmi teatrali e opuscoli museali che spunta il color cielo tanto agognato.
L’elastico mi rimbalza sul dito, ma nessun dolore può fermare la mia avanzata. Apro e c’è tutto. Tutto. Anche il vecchio controllo e gli appunti presi con la traduzione a fianco che all’epoca io e il francese non eravamo tanto amici.
Alzo in trionfo il ritrovamento. Credo si sentano così gli scienziati quando scovano un reperto prezioso.
La procedura è salva, la domenica pure.
Però se c’è il sole domani prendiamo la bici.

Ho sudato, leggendoti.
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