100 e trentanove. Ali
Dormiamo fino a tardi questa mattina.
La sveglia non serve, dobbiamo andarcene entro mezzogiorno. Ce la possiamo fare anche con i tempi della figlia che mangia come un bradipo.
E parla. Chiede. Commenta.
Mamma, ma secondo te l’uccellino è ancora là?
Sdraiata, arrotolata nelle coperte, ha ancora gli occhi impastati di notte. Io pure, ma i riflessi mentali a cui mi costringono i due coinquilini giovani mi permettono di rispondere subito connessa, anche se un po’ bugiarda.
No, tranquilla. La sua mamma è scesa a prenderlo. Di sicuro.
E inizio la giornata con l’immagine del misero passerotto caduto dall’albero che abbiamo incontrato in un autogrill all’andata.
Oggi ritorno. Pensiero ovvio. Per lei. E per me.
Il marito non ci prova neanche a capire. Il figlio invece, già vestito e impaziente, mi dà manforte e sostiene la teoria del rientro al nido. Come noi del resto.
Una colazione e migliaia di parole dopo ci mettiamo in macchina. Il minicane un po’ indisposto prende posto su un cuscino in braccio a me. In caso di bisogno l’intervento deve essere immediato e fondamentale in un’auto a noleggio. Che doverla pulire di fino sarebbe un brutto modo di finire la vacanza.
Zaini attrezzati per sete e spuntini, salutiamo la bella città che ci ha visti satolli e seguiamo le indicazioni stradali.
Niente strane deviazioni stavolta, autostrada appena si può e tirare dritto. Di gente in giro ce n’è poca, dovremmo arrivare veloci.
La Normandia ci accompagna ancora per un buon tratto, il cielo grande è affollato di nuvole in rincorsa, i colori della terra si danno un tono ognuno a modo suo. In fondo il mare resta perfetto.
È passando da un paesino inatteso che succede.
Di nuovo.
Il marito si ferma alle strisce pedonali, ci sono bambini da entrambi i lati della strada. Due gruppi allegri che si chiacchierano sopra con dei foglietti in mano, si direbbe una caccia al tesoro. Il finestrino è abbassato, il minicane vuole partecipare al chiasso infantile e irrompe in uno dei suoi acuti assoli. La piccola più vicina sussulta, poi sorride e ci fa segno di andare.
Non ho capito se la futura vigilessa ci concede la precedenza perché davvero non devono attraversare o per toglierci in fretta di torno.
È simpatica, avrà sette anni, con gli occhiali e una giacchetta verde, i pantaloni corti.
È uno di quegli incontri minuscoli che restano dipinti.
Ma non è lei.
È un maschio. Si vede dalla coda. Guardate! Guardate che bello!
La figlia dirige il nostro sguardo sulla colonna in cemento a destra. La bassa velocità del mezzo in ripresa aiuta il cambio di registro viventi.
Un pavone. Maschio appunto.
Se ne sta impettito sul suo trespolo metropolitano indeciso se fare la ruota o fumarsi una sigaretta.
Perché lo vedi che si è preso una pausa. E da buon protagonista la condivide con i passanti.
Non è una statua benfatta messa lì. Si muove, ammicca, becchetta, solleva l’imponente posteriore, ma siamo già oltre.
Il pensiero però resta a lungo con lui. La figlia non molla tanto presto.
Ve l’ho detto che era un maschio. Lo si riconosce subito. Il maschio ha la coda più grande e colorata. L’ho vista aperta una volta. Al parco in Belgio in gita scolastica l’anno scorso. C’eri anche tu. Ti ricordi?
E come posso dimenticarlo, figlia?
Dopo la collocazione storica, alcuni chilometri sono poi dedicati alla spiegazione scientifica e via così fino al significato della sua presenza tra noi.
In effetti, pensandoci, in andata era un batuffolo di piume caduto dal nido, al ritorno è diventato un fagiano in ghingheri su un muro.
Ci dev’essere un legame tra noi e i portatori d’ali.
Oh, vuoi vedere che…?
Mi do una sbirciatina discreta allo specchietto dell’auto. Una speranza. Magari. L’effetto vacanza.
No, niente da fare, resto sempre più simile a quella simpatica con le ali corte.
Quella che fa buon brodo.
