XVII. La coppa dei piccioni
Prima era abitata da una coppia. Lei cameriera in un ristorante italiano, lui neo pensionato Renault con la passione per le auto antiche. Si metteva spesso sulla rampa in cemento fuori casa, la testa tuffata nel cofano aperto. Passavo e si chiacchierava del suo nuovo bebé da sistemare. In teoria comprava per rivendere, in pratica collezionava. Se ne sono andati in luglio, destinazione una nuova casa. In campagna. Con la scusa di stare più vicino ai figli veri, hanno trovato una dimora comoda per quelli a quattro ruote. Dommage. Erano vicini simpatici.
Non sapevo neanche che fossero in affitto.
Ma ecco perché non hanno mai fatto niente per il rudere. Si limitavano a tenerlo pulito dalle erbacce fuori. Mai visti entrarci.
Ci fantastico spesso osservandolo dalla finestra.
È lungo e piuttosto stretto. Occupa quasi due terzi del giardino. Potrebbe diventare un atelier, un mini teatro, uno spazio espositivo, una sala prove.
È una miniatura, un haiku di cemento.
Peccato sia chiuso e in disuso. Peccato stia cadendo a pezzi.
Chissà chi l’ha costruito e perché. Mi chiedevo.
Ora lo so.
Vengo invitata a visitarlo dai proprietari che stanno rinfrescando la casa prima di riaffittarla.
L’edificio è a due piani. Si accede a quello di sopra da un paio di gradini spezzati.
‘Attention à la tête’.
Troppo tardi. Sbatto. L’architrave pencola dispettosa.
Appena entro ho la sensazione di essere in uno di quei castelli del Luna Park, dove le dimensioni non sono quelle che sembrano. O non sembrano quelle che sono.
Sembra che sono. Fortunata. Non ho sbattuto forte.
Eppure li vedo. Mentre il signore mi racconta la storia li vedo davvero.
A decine, stipati ovunque, organizzati in taglie e squadre e livelli di capacità.
Ogni famiglia ha il suo spazio, c’è una gabbia per i casi da studiare. O da allenare.
Primo piano camere con vista, piano seminterrato zona di stoccaggio e manutenzione.
Qui si allevano piccioni. Viaggiatori.
L’anziano appassionato era un amico degli attuali proprietari che hanno acquisito la casa con l’annesso. Ristrutturata lei, lasciato andare lui.
Dommage.
Sono tempi gloriosi.
Il tizio è un professionista. Li fa gareggiare dappertutto. Vince medaglie e coppe. Livello internazionale. Partono da qui, arrivano a Barcellona. E ritorno.
Ma come fanno a non sbagliarsi di strada nell’infinito cielo?
Io, che mi perdo sulle scale perché non ricordo se salgo o scendo, non lo so.
Sono esseri con superpoteri. E chi li allena è ancora più magico. Li deve conoscere forte per mandarli via così. Sulla fiducia.
Che vince sempre se ci si lavora sopra. Se gli si fa una bella dimora dove crescere robusta e poi la si lascia andare. La fiducia.
Ma anche i piccioni.
Ho tanti pregiudizi su di loro. Mi hanno regalato evacuazioni in testa almeno un paio di volte. Li vedo goffi, sporchi, inutili. Con quel loro huhu gutturale dove vogliono arrivare?
Eppure. Guardali un po’. Guarda come sfrecciano impavidi questi atleti dell’aria.
Liberi di andare. Liberi di tornare.

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