C. Bianco
Nell’altra vita la macchina sarebbe carica e noi pure. Sveglia presto, colazione veloce e partenza. Verso Casa.
Invece siamo in questo limbo incoronato che blocca i ritorni. Ferma gli slanci.
Oggi ho guardato lo stesso le auto a noleggio (le nostre ormai non ce la fanno più a reggere i mille più mille) e pure i treni.
C’è ancora qualche biroccio e posti a sedere al limite della classe. Vorrei prenotare. Vorrei andare. Anche a piedi me la farei se reggessero le scarpe. E non perché manca poco al Natale e c’è bisogno di famiglia. Non perché mancano gli amici e c’è bisogno di abbracci.
Perché possiamo rimandare ancora il rientro, festeggiare dopo, accettare la distanza e restare qui.
Ma io devo tornare. Ho un’urgenza di pianto e di lacrime. E sono arrabbiata. Tanto.
Trovare il senso di una perdita è un’acrobazia che non riesco a fare. Da questo piccolo angolo vedo solo l’equilibrio che manca, il vuoto a inghiottire i pensieri insieme a uno stupore cattivo.
Perché non ci credo. Non è vero. Faccio come il figlio che nega e tira. Pugni, oggetti, grida.
Anche oggi lo fa. Al posto mio. E abbiamo di nuovo qualcosa in meno in casa. Che importa.
Mi hanno regalato venti tulipani bianchi.
Sono belli. Sono fragili. Sono petali che muoiono troppo presto. Anche loro.
È sera ormai. Apro la finestra. Tolgo i gerani che resistono sul davanzale. Stacco tutte le luci dal vetro in cucina. Lo guardo spoglio come il cuore che non riesco a lasciare nel freddo appannato.
Pulisco.
Ricomincio.
Prendo il cartoncino e disegno la sagoma del presepe. La ritaglio. Attacco il negativo alla finestra. Riempio il vuoto di bianco. Lascio asciugare e stacco.
Il positivo è una capanna stilizzata con tre sagome e una stella.
