CVIII. Dolcezze
La scuola fa bene. Sempre pensato. Sempre dichiarato.
Non fosse altro per i ritmi conosciuti e i passi da fare per arrivare.
Usciamo giusti, io e il figlio. Accompagnarlo è una scusa per sgranchirmi. Finché me lo consente ancora ne approfitto. Sono facile di mattina. Cammino, non parlo, ascolto se serve, ma siamo simili in questo. Il silenzio quando stiamo bene ci piace.
‘Bonjour, bonne année’ ci saluta lo spilungone in monopattino. È bardato come per andare al Polo e già mascherato, ma lo riconosciamo. Ha i nostri stessi orari da lupi della steppa. Affronta la finta notte delle sette e quaranta con una pattinata decisa e leggera. Frequenta l’ultimo anno, è simpatico e beneducato. Il solo fatto che ci dia il buongiorno ogni volta che ci incrocia è sintomo di terreno coltivato. E si sente che sorride dietro alle parole.
Fanno bene questi incroci di gente perbene, come un profumo buono che aleggia nel freddo.
Altrimenti.
Quando è aperto il ristorante accanto a casa, annuso spesso un sugo carico di burro o il soffritto se la tipa si impegna. Non è un bell’andare. Non ringrazio il corona che ha temporaneamente stoppato questo disagio, ma confesso che respiro meglio un’aria che sa di nebbia o di vento.
Oggi siamo davvero fortunati. Girato l’angolo, quasi a ridosso della scuola ci sorprende un aroma caldo e zuccheroso. Qualcuno ha cotto dei croissant. Il forno è più in là, dev’essere per forza un privato. Sniffo e sbircio curiosa nelle case prive di tende senza trovare il colpevole di tale meraviglia.
E intanto sento però che manca qualcosa.
Non c’è nessuno che prepara il caffè a quest’ora? O forse è quello francese che non ha aroma.
‘Ciao, mamma. Ci vediamo a mezzogiorno’
Buona giornata, figlio. Scusa, ero distratta. Pensavo.
Che dell’Italia mi manca anche il profumo.
