Si. La fuga
Una giornata infinita.
Iniziata con la Fata che non si regge in piedi. Troppe magie tutte insieme fanno bruciare qualche lampadina in più e addio stabilità. Allettata la genitrice, mettiamo Ufficiale di guardia. La missione non gli dispiace: mentre la sorvegliata sonnecchia lui apre un libro e legge. Legge per un paio d’ore. Sono mesi che non riesce più a farlo. Il pranzo glielo portiamo che così non si interrompe e non si allontana. E noi mangiamo a nucleo originario. Fa bene.
Il pomeriggio va veloce, ci sono un sacco di panni da lavare dopo lo tsunami mattutino e la spesa da fare. Frullo in giro ad ali di colibrì e l’ora di merenda potrebbe essere quella giusta per prendere il volo. Per me e la figlia. Nos affaires sono già pronti da ieri. Aspettiamo solo un varco spazio temporale propizio.
Invece.
Il buco nero ci risucchia di nuovo tutti. La Fata si è alzata. Storta, tenace, minaccia piani di fuga. Per fortuna il giardino è esteso in lunghezza e il sole ci grazia. Con la scorta lo percorre dieci, venti, trenta volte su e giù su e giù su e giù. Ma la strada anziché placarla la carica. Il piano di emergenza comporta assunzione di bevanda sedativa, ma il primo tentativo finisce fra le ortensie. Arriva il marito, la calma, le sottopone un altro bicchiere. Missione compiuta.
‘Mamma, ma allora andate?’
Il figlio tiene molto al rispetto dei programmi. Che già abbiamo sforato di ore. Guardo la figlia. Anche lei è in forse. Come si fa? Andare così, senza pensieri. Con tutto ‘sto caos.
È pure l’ora di cena.
Ma. Alla fine. Noi. Si va.
‘Torniamo presto. Ci sentiamo dopo. Però, marito, se vuoi…’
‘Vai!’ ed è un ordine.
Al semaforo mi accorgo di aver dimenticato la borsa viveri. Torniamo indietro. Riparto.
No, non è una finta. Stavolta siamo davvero via.
Il minicane in braccio, la figlia si guarda nel riflesso del vetro e si piace, con i capelli sciolti e gli occhiali da sole azzurri prestati dal fratello.
Noi si va.
I campi sono biondi di grano punteggiati qua e là da trattori in azione.
Su questa terra larga e piatta il cielo sembra più grande. Le nuvole lo colorano rincorrendosi al tramonto.
Poco più di un’ora e ci siamo. Sul nostro balcone.
Le dune sono vicine. Domattina ci andremo.
Stasera siamo parecchio stanche e ho da portar su scatole e vettovaglie. È la prima volta che dormiamo qui.
Lascio la figlia ad apparecchiare con lo scottex e scendo a fare un paio di viaggi. Per fortuna c’è l’ascensore. Non prendo telefono né chiavi. Mi sfiora l’idea che qualcosa si inceppi, ma che vuoi che succeda?
Infatti.
Primo carico perfetto. Lei apre e si richiude per bene che non si sa mai. È un posto sicuro, ma siamo nuove.
Scendo di nuovo. La porta che dà sul parcheggio è ancora aperta, intravedo due tizi che escono in bici. Apro il bagagliaio, tolgo l’ultimo ingombro e la borsa di carta con il sugo e i succhi.
Mi giro.
La porte est fermée.
I tizi à vélo spariti. E io bloccata dans le parking.
Merle. Penso.
Ok. Posso uscire dal cancello grande e suonare il citofono che è dall’altra parte dell’edificio. Il giro è un buon esercizio con i pesi annessi, mais ça va.
Ci sono ancora auto sul lungomare, alcuni approfittano della sera tiepida per passeggiare, altri si stanno togliendo la sabbia dalle dita avant de démarrer.
Provo a chiamare la figlia. Forse urlando…ma mi ricordo la latitudine del luogo e desisto.
Trovo i citofoni, ovviamente non so quale bottone pigiare. Ne suono uno a caso.
‘Hello?’
Spiego. La signora è gentile, si fida. Si vede che siamo a due passi dal Belgio. Schiaccia il contatto, spingo, sospiro: la porta è ancora chiusa. Indovino però il numero del nostro balcone. La figlia si affaccia.
‘Maman?’
‘Tirami la pochette con le chiavi, per favore’
Sparisce.
Un clacson dietro la schiena mi fa sobbalzare. Sono sulla loro retromarcia. Mi sposto continuando a curare l’alto.
‘Te la tiro?’
‘Vedi tu… se vuoi calarla…’
Afferro la chiave, entro e mi trovo davanti la signora che ha risposto al citofono. Ha intuito che non fossi riuscita ad aprire ed è scesa. Incredibile.
Mi aiuta con la borsa di carta che però cede e svela la birra di conforto. Raccatto, ringrazio. Vengo scortata in ascensore fino al piano. Ringrazio di nuovo con un inchino e guadagno il balcone dove mi aspettano figlia e quattrozampe.
La coda della vedetta pelosa gira così veloce che potrebbe decollare.
Ceniamo alle nove e mezza.
A casa se la cavano alla grande.
Ci siamo dimenticate i cuscini e lo zucchero, ma due asciugamani fanno il servizio e un caffè amaro non ha mai ucciso nessuno.
Sento il respiro della mia compagna di fuga finalmente addormentata con il minicane accanto.
Io resto ancora un po’ qui.
Dalle tende socchiuse lo vedo e lo sento.
Nero e infinito. Come questa giornata.
Ma immensamente più bello.
