Ar. Il tempo e la luce
C’è questa foto di Olivia Oil che atterrerà presto su una delle nostre pareti. Per ora l’ho catturata in digitale e la espongo vuota di materia, stracarica di senso.
Perché è un simbolo. Di tempo necessario.
Per decidere. Per diventare. Per andare a bere.
E non si tratta solo di rubinetti da girare e mezzi di trasporto alternativi. Anche le fotografie hanno una data di scadenza.
Tolgo la polvere ai ricordi e scovo una domenica pomeriggio in un laboratorio universitario. Siamo in tre: io, l’allora non ancora marito e l’amico appassionato che lavora alla sezione informatica. E che ha le chiavi.
Attraversiamo in un silenzio circospetto l’atrio vuoto, scendiamo sotto il livello del pianterreno. Tornare indietro ormai non si può. Siamo qui e andiamo fino in fondo. Niente di illegale, solo un corridoio.
Piuttosto siamo al limite dell’anacronistico. Un’iniziazione quasi fuori tempo massimo. Perché se oggi i rullini sono diventati merce rara, già allora erano specie protetta, in via d’estinzione.
Non c’è in giro un’anima. La stanza è in cemento con un tavolo operatorio, un lavandino e nessuna finestra. Luogo perfetto per un’operazione chirurgica. O uno sviluppo clandestino.
Con mano esperta l’amico prende le bacinelle, il liquido, la lampada, la carta. Scegliamo lo scatto da lavorare, iniziano le domande, le discussioni, i tentativi. Siamo in apprendimento, c’è il dovere all’errore. Se apro troppo brucio, se non oso perdo i contorni. Il tempo e la luce devono andare d’accordo per non fare danni.
Giochiamo con i particolari, ingrandiamo e scopriamo un linguaggio che è un codice. Siamo direttori della fotografia, responsabili di ogni immagine.
Quando usciamo fuori è buio. Ho in mano quattro fotografie senza tempo che oggi non so più dove siano finite. Ma ci abbiamo lavorato così tanto che le ricordo ancora nei minimi dettagli.
E non è solo una questione di memoria.

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