Fe. È ora

È un nastro di seta che scivola, questo giorno lungo. Il più lungo della mia vita. A dimostrare che il tempo è un’invenzione, una convenzione banale con tenta di competere con i battiti del cuore. Partiamo presto stamattina, questione di non accavallarci con gli orari di scuola. Il figlio tenta di riprodurre i gesti quotidiani ma sono strani con tanto anticipo. E finisce per sedersi in silenzio in attesa. La figlia scaccia il sonno dai capelli e saluta triste un altro pezzo d’infanzia che si stacca da lei suo malgrado. Il marito resta. Io parto con una Panda carica di pensieri, la Fata Smemorina accanto con l’inseparabile borsa, Ufficiale e Gentiluomo seduto dietro tra la scorta dei viveri e il minicane. I chilometri veloci scorrono fra le auto di un lunedì qualunque. Sono ore distese con la radio accesa a tratti e qualche chiacchiera immersa nei ricordi. Masticare qualcosa porta conforto. Il paesaggio cambia lento, fra teorie di campi e di verde a sfumature infinite. Iniziano i rilievi, su inattesi pendii le case sono colorate con i pastelli. Passo dai Vosgi che ci regalano un’ora di pinete e vigne a perdita d’occhio. Ufficiale mi ringrazia. È la fotografia mai scattata del loro ultimo viaggio insieme. La Svizzera arriva sotto una pioggia battente, poi le nuvole gonfie di sole illudono all’ora della merenda. Manca poco, mi dico. Il tunnel del Gottardo e ci siamo. Ma intravedo in fondo la coda del ritardo. Meglio uscire, deviare, salire, che restare ad aspettare un semaforo dittatore. Entriamo nel surreale della nebbia fra lavori in corso e sensi alternati. Tempo dieci minuti e il minicane va in iper ventilazione, accosto, scendo, e mentre lui evacua tremando io tremo aspettando. Gottardo, che freddo! Il versante sud è circondato da cime spruzzate di bianco. La Smemo si incanta: ‘la prima neve! Nanana nanaaa mi ricordo montagne verdi e le corse di una bambina, con l’amico mio più sincero un coniglio nanananero’. Ufficiale parla di quando andava a cercar funghi con gli amici o di una trasferta di lavoro. O forse di entrambe le cose. Ascolto tutto e guido e sono un po’ stanchina. Entriamo nel cortile di Casa che le luci sono già accese, mon frère ci aspetta seduto in panchina. Saluta, abbraccia, scarica. Scarico, abbraccio, saluto. La sequenza impostata sostituisce parole di troppo. Dall’alto scende la cena, calda e piena delle cure di Olivia Oil e Bracciodiferro, sempre attenti e presenti. Rendo noto l’arrivo ai rimasti francesi. Buonanotte, famiglia. Vi amo. Mangio veloce, ricevo un messaggio di conferma ed esco di nuovo. La missione notturna serve a preparare un’altra valigia, che ha il peso di una vita e dove tutto è da numerare. Passo a prendere Sorellanurse che ha il talento dei momenti così. Ho bisogno di una complice per questa incursione nell’armadio di mamma. Non c’è tutto, ma per l’ingresso può bastare. Cuciamo a chiacchiera libera fino alle due, lei si tiene un po’ di scorta per domattina, io torno alla base per qualche ora di riposo. Mon frère dorme storto sul divano, è arrivato anche lui stasera dal lavoro e da seicento chilometri. Lo sveglio e ce ne andiamo a dormire. Siamo nelle camere a letti singoli. Siamo ragazzi e di là dormono mamma e papà. Ne sento il respiro. Non voglio pensare a niente in questa notte alla fine del mondo, ma il sonno non arriva. Poi sì, improvviso e di piombo, che mi sveglio indolenzita e con gli occhi in fiamme. La colazione è confusa, c’è un’aria di tregua armata. Lei vuole rifare i letti, sistemare. Prende cose, come per partire. Eppure non sa. Le abbiamo detto solo che andiamo in Comune a rinnovare la carta di identità. L’assurdo paradosso di dover dichiarare chi è prima di entrare in un luogo di identità perdute. Ma tant’è. Lui non viene. Ha aperto sul tavolo la cartina stradale della Francia, cerca gli occhiali per studiarla. Non voglio vedere il loro saluto, lei inconsapevole, lui sfuggente. Non vuole piangere. Non voglio piangere.

(à suivre)

camera con vista

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