In morte di un ficus

Torno alla casa del nord e la trovo bella. Bella. Come una donna trascurata che continua a resistere in una sua luce solitaria.
Resiste alla polvere, alla ruggine, al silenzio.
Il giardino è dove attacco subito. Ad ammirare. Il prato, i fiori, i cambiamenti della natura che in un giorno di sole regalato mi informano che tutto è vivo. Tutto.
Tranne il ficus.

Agonizzavi. Chiedevi aiuto. Inascoltato.
L’avevi già fatto anni fa.
Sopravvissuto a qualche settimana nell’angolo del trasloco greco da farsi, eri rientrato con me in auto, mentre facevo un film di passaggio.
Nella casa in cortile ti avevo affidato alle cure di sopra, perché con i figli piccoli il mio pollice era verde solo di colori a dita.
E presa dal vortice mammifero, ti avevo quasi dimenticato. Di sopra. Poi un giorno avevo incrociato l’affidataria en train de te jeter à la poubelle, perché non ne volevi sapere di metter su foglie.
In un canto forzato, al buio, ti eri azzittito.
Avvizzito ti avevo recuperato. Ti eri ripreso.
E ci avevi seguiti nella vita francese. Rigoglioso e orgoglioso della tua nuova postazione vicino alla finestra. Non al sole diretto, pas de courants d’air. Vivo e splendido nei tuoi quasi due metri.
In estate ti sistemavo giù, vicino alla capanna rossa, in fondo al giardino, all’ombra buona dei vecchi tronchi spilungoni che esplodono foglie appena possono.
Ma non ti ho portato con me all’ovest. Il mezzo trasloco non lo prevedeva.
Ti ho lasciato qui. Mezzo abbandonato.
Il marito ti ha spostato più volte. Ti ha rimesso in luce. Al caldo. Forse troppo. Bagnato. Forse troppo. Curato. Forse troppo poco.
Eri forse solo troppo solo. E ti sei lasciato andare.
Ti trovo fuori, in un vaso fradicio di pianto non accolto. Con lo stecco secco secco. Hai le foglie grigie in tappeto ai tuoi piedi, altre ancora attaccate aspettano.
Ti rifaccio il test del rametto. Come quando ti salvai ai piedi di una scala, diretto al compostaggio.
Ma oggi non c’è linfa, niente verde sotto pelle, niente più vita nelle tue braccia tese. Le tue dita sono ruvide e scheletriche.
Ti tiro fuori a forza dal vaso. Sento quella puzza che ricordo da bambina quando fuori dal cimitero la nonna mi dava i fiori appassiti da gettare nel cassonetto. Era l’odore della bellezza in putrefazione. In trasformazione.
Ti trascino sull’erba. La terra si stacca in macchie di pantano. Una pianta che piange non la sente nessuno. Le vedo tutte ora le tue lacrime contratte.
Le metto qui, insieme a te, sotto gli alberi che sbocciano nuovi in questo inizio di primavera.
Mentre ti accarezzo, un’ortica vendicativa mi pizzica il braccio.
Ma tu, amico mio, sei già altro. Concime per i fiori che verranno.
Ad memoriam.

e poi

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4 Comments Lascia un commento

  1. Cara, mi sei mancata. Che emozione trovare, tra le mail dai contenuti piatti, la tua storia, sensibile, toccante. Spero di aprire la posta e trovarne altre … Ti mando un abbraccio da estendere a tutta la famiglia. Francesca

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