100 e undici. Manipolare

C’è uno spettacolo attuale in una piazza di Ancona.
Un attore sta dentro una teca in plexiglas e agisce.
Fuori il pubblico in cuffia è razionato e pratica il rispetto della distanza. Intorno passano le macchine e l’indifferenza del caos.
Leggo la notizia e penso a questo strano ritorno alla vita normale. Al senso di normale e di vita che cerco di trovare e che spesso vorrei ignorare con un’incoscienza felice.
Quando succede muovo le mani. Faccio cose, come un illustre in un film di diversi anni fa.
Il lavoro manuale ha il potere magico di cancellare le paranoie.
Stasera sbuccio e affetto le melanzane, lavo i pomodori, trito l’aglio, spezzetto il formaggio. Completo la ricetta e metto in forno.
Ma non è ancora passata e la cena è lontana.
Marito e figlio sono in giro in bici, la figlia danza sui pattini in soggiorno, il minicane sonnecchia sul suo cuscino sopraelevato.
Io scendo in garage e mi metto a scartavetrare il pallet.
Il movimento regolare è efficace, c’è un che di violento che si sfoga sul legno. Il risultato appaga.
Meno male che l’ho finalmente trovata, la manualità.
Fino agli anni venti ricordo di non averne ricordo, concentrata come sono su tutto ciò che è scritto. I libri mi ossessionano e non posso neanche contare su una bella dipendenza da internet per disintossicarmi. In quegli anni la rete è solo all’inizio della sua tessitura.
Per fortuna incontro il teatro. Questo amico discreto piano piano si fa strada e prende possesso di spazi inerti e trascurati. Ma che la disciplina del palco fosse perfetta per me l’ho capito dopo. Inizio a bazzicare l’ambiente quasi senza rendermene conto, con un corso per animatori sociali e un attore allora famoso che ci insegna l’arte di essere gruppo.
Diventa un animale, ci chiede in un esercizio.
E io mi invento uno struzzo con la giacca. Che mica posso fare un cane o un gatto o chessò una gallina.
Ecco, tutto il dopo – la scuola a Milano, l’esperienza in giro e i racconti davanti al pubblico – nasce lì. Dalla sopravvivenza a quella vergogna.
Se non mi diverto non funziona.
E se non faccio non sono contenta.
Invece di tatuarmelo da qualche parte, con gli anni rischio di dimenticarlo, soprattutto nel ruolo familiare che interpreto a tempo prioritario. E che, non sempre, ma ingabbia.
La carta vetrata fa il suo dovere, sgrezza, pulisce, livella. Prepara il legno per la sua nuova destinazione. Lo nobilita e tira fuori bellezza.
Come l’orto che disciplina la terra o le forbici che disegnano un vestito.
Mamma, il forno sta suonando!
Per fortuna la figlia sorveglia il nostro futuro. Interrompo la mia sessione di recupero e salgo ad apparecchiare.
La cena è silenziosa, chiacchierano solo le posate.
A volte succede quando il corpo è stanco e la mente è leggera.

pronti



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