100 e sedici. Il bello dei cliché
L’ultimo messaggio risale a fine aprile.
Ci siete. Ci siamo. Come state. Ci vediamo.
Il presto diventa oggi pomeriggio, diversi mesi dopo.
La figlia mi aspetta, ma l’incrocio sul marciapiede con il loro sorriso fa scattare il ritardo. Mio. Il loro è impossibile. Sarebbe quasi contro natura.
Perché due più tre cinque sono il cliché vivente dei pregi del Sol Levante. Minuti, piccolini, dimostrano un’età inferiore, quasi ferma nel tempo.
La mamma ha un nome da manga e superpoteri che neanche nei fumetti. Ricercatrice universitaria come il marito, sta a casa a tempo pieno intanto che impara il francese. E non è come dirlo per una giapponese, che parla bene anche la lingua di Shakespeare.
Arrivano nel maggio di tre anni fa. Prendono al volo un’occasione di lavoro, ma non è lei che ci va. Lasciano il Giappone perché troppo competitivo, troppo stressante. Vogliono far studiare i loro figli in un ambiente più umano, meno performante.
E io che mi lamentavo dei ritmi del nord.
Mamma, H. disegna benissimo!
I primi tempi il compagno del figlio comunica con le immagini e con tutto ciò che non ha bisogno di parole.
In matematica è fortissimo, sai? E vedessi come corre. A calcio è gentile, mi passa la palla. Però quando può fa sempre goal.
La sorella piccola e il fratello più grande sono come lui. E ora che sono pure sintonizzati sulla lingua locale non li ferma più nessuno. Pandemia permettendo.
L’incontro di oggi sul marciapiede è veloce, tutto sorrisi.
Tutti bene? La famiglia?
Quando partite?
Vediamoci prima.
Abbiamo cominciato a conoscerci con qualche merenda e un paio di pranzi domenicali.
Ma la scintilla scatta durante un temporale fuori scuola, poco dopo il loro trasferimento.
Aspettiamo i figli che ritornano dalla gita, l’ombrello non basta contro il diluvio. Ci rifugiamo in macchina per cinque minuti, poi ci mettiamo le figlie che escono puntuali, ma il bus dal parco non è ancora avvistato. Ritarda di un po’ e quando arriva siamo ormai fradice.
Il ritorno è obbligatorio tutti insieme, non posso lasciarli andare a piedi. Abitano dall’altra parte del ponte, venti minuti di cammino a passo spedito, mezz’ora abbondante con tutto ‘sto fiume che cade dal cielo.
Siamo in sette. E che non ci stiamo?
Noi mamme davanti, le figlie e il più grande dietro. I quasi omonimi H&A nel bagagliaio.
Italian style butto là, banale.
Lei non parla, sgocciola e sorride.
Li lasciamo a casa inzuppati e felici. Mentre faccio manovra sono ancora lì davanti alla porta, mi aspetto che aprano in fretta e corrano dentro al riparo. Invece restano a salutarci finché non siamo spariti.
Quattro piccoli folletti d’acqua ci sventolano le mani manco fossimo in partenza per l’America.
In quel giorno di pioggia è salpato un bastimento. Carico di merce preziosa come l’amicizia, la gentilezza e il saper salutare.
Ci siamo messi a bordo insieme e il viaggio procede lento.
Ma sono convinta che con questi cliché andremo lontano.
