XXIX. Dîner sur l’herbe
Lei è la libraia del centro. Piccola, sportiva, priva di smancerie. Sta chiudendo i battenti di legno rosso con un sospiro.
Suo marito è un gigante vichingo senz’elmo. Esce sudato dalla porta, grugnisce un saluto gentile ma si vede che è sulla via dell’esplosione. I figli folletti lo tallonano, il piccolo salta sul marciapiede, si appende al palo della luce. La sorella sorride alla quasi amica che l’aspetta da un po’. Quarantacinque minuti per la precisione.
Nel messaggio del primo pomeriggio Bookshield ci proponeva un picnic serale nel parco.
Il tempo canicolare di questi giorni invita a comportarsi da gente del sud e a noi che lo siamo davvero non sembra vero. Accettiamo con slancio. Preparo un mega panino per la principessa affamata e io recupero un resto di couscous alle verdure. Il marito torna da una Parigi soffocante e il figlio ha voglia di tv, la cena per loro è decisa in cucina. La separazione maschi e femmine oggi ci è davvero congeniale.
Io e la figlia arriviamo puntuali. Ci sono due mamme velate che chiamano i pargoli sullo scivolo e un ragazzo che parla al telefono accoccolato sulla panchina in fondo. Ci sediamo.
‘Mamma, come fa la canzone?’
La trovo sul mezzo portatile sempre connesso e mi ritrovo a cantare a squarciagola ‘sto pezzo francesissimo che parla di ridipingere il mondo con altri colori. Pas mal.
Solo che cinque riprese e tre piccioni scappati dopo inizio a chiedermi se non abbiamo sbagliato parco. Ho dato per scontato che fosse quello più vicino, a metà strada fra casa nostra e la libreria, ma.
Sono le sette e quaranta, dieci minuti dopo l’appuntamento previsto. E non siamo a Casa dove il quarto d’ora d’abbuono è più che normale.
‘Andiamogli incontro’.
Esce la commessa e le chiedo notizie.
‘Elle arrive’ risponde montando in sella.
Se arriva allora aspettiamo.
La sera è tiepida. La farmacia ha ancora la croce accesa. Il bar di fronte è pieno di gente che gira pagina dopo il lavoro. Ci osservano, ci osserviamo. Ci sarebbe materiale per sette stagioni di serie tv.
‘Lo facevo spesso, quando non c’eri tu’.
No, non prendertela figlia, è che prima frequentavo di più gli aeroporti e le stazioni e mi piaceva starmene seduta ad immaginare le vite degli altri.
Mi guarda sorniona. Accenna una giravolta all’imbrunire. E succede.
Diventiamo complici in questo gioco di comari curiose, ridiamo, ci sussurriamo commenti sfrontati. Peccato che non ci sia una panchina.
Il campanile rintocca le otto. Già da dieci minuti ho ricevuto un messaggio di rinvio al nostro appuntamento. Stanno finendo di sistemare dei cartoni, arriveranno al parco alle otto e un quarto.
‘Est-ce que c’est trop tard?’
La mia risposta non viene letta, non sanno che siamo qui fuori.
Ma noi abbiamo di che occuparci. E la fame non c’è perché prima di uscire ci siamo portate avanti con uno spuntino rinforzato. Che il picnic sarà anche carino, ma per noi mangiare è un’altra cosa.
Lo facciamo comunque. Il picnic.
Bookshield e famiglia sono tipi da sbarco. Le vacanze le hanno passate in campeggio libero, sperando di trovare una sorgente quando l’acqua finiva.
Che vuoi che sia un po’ di umidità e la sera del nord scesa col vento.
La loro tovaglia diventa una felpa per i figli che in canottiera fa un po’ freddino. Il nostro telo tanto è abbastanza grande per tutti. Per dessert dividiamo il cioccolato al sale e i fichi estratti da un sacchetto di carta. Il buio è arrivato e anche l’ora dell’arrivederci.
‘Mamma, guarda! La prima stella!’
Grazie, figlia.
Era tanto che io e te non passavamo una serata così bella.
